20 gennaio 2012

La Babele in sala parto

Avevo iniziato a sospettarlo con il parto di mia sorella.
Mia sorella, cittadinanza italiana, era impegnata in un travaglio-storia-infinita. Rottura alta del sacco, ricovero, profilassi antibiotica, fettucce e fettuccine, gel, prostglandine e ossitocine. Una degenza di 72 ore prima di riuscire a partorire una bimbetta di nemmeno tre chili. Il tutto condito da un turbinio di suppliche, implorazioni e minacce:
“Vi prego, il cesareo...”
“Mi rifiuto non faccio più niente! Dove diavolo è l’anestesista con i ferri?”
“ Mi state prendendo per i fondelli! Mi avete detto un’ora fa che l’anestesista stava arrivando!”
“Chissenefrega se si vede già la testa. Basta, voglio il cesareo!!!”
Nel frattempo, le mamme con cittadinanza cinese arrivavano, partorivano, se ne andavano. L’ostetrica: “L’ho lasciata un attimo sul lettino in corridoio. Il travaglio era appena iniziato. Qualche smorfia...il bambino non stava mica nascendo lì, in corridoio?”.
L’avevo sospettato: stesso ospedale, identico staff medico sanitario, eppure le donne italiane, arabe, orientali partoriscono all’italiana, all’araba, all’orientale.
Lo descrive bene la giornalista Sara Hejazi nel suo articolo “Babele in sala parto”, pubblicato su IL rivista allegata al Sole24ore.

16 gennaio 2012

Partecipa alla nascita

“Enjoy the birth”. Partecipate, divertitevi. Sorridete, danzate. Seguite, di ciascun parto, i ritmi, i rituali, il respiro. Queste le esortazioni di Debra Pascali Bonaro alle doula del corso Dona International.  Con lo sguardo luminoso, una positività che contagia, Debra ci ricorda che, in qualità di doula, saremo vicino a ogni mamma in travaglio in maniera incondizionata. La doula nutre e protegge l’esperienza di nascita di ciascuna mamma e ciascun bambino, con parti naturali, con epidurale, medicalizzati, con taglio cesareo. La doula durante le diverse fasi del travaglio  porta calma e fiducia. Aiuto e conforto. Debra in questi quattro, intensissimi, giorni ci ha fatto un regalo prezioso:  ci ha permesso di sperimentare, ciascuna su se stessa, quanto sia gratificante e vitale essere ascoltata, nutrita, protetta. Sarà più facile prendersi cura degli altri avendo di nuovo apprezzato cosa vuol dire prendersi cura di sè.

13 gennaio 2012

Finchè c’è latte, c’è speranza



A. è un bambino simpatico e carino. Ha quasi tre anni e prima di andare a nanna beve un po’ di latte della mamma. “Mi piacerebbe che smettesse quando è pronto, che fosse lui a decidere. Senza forzature”, mi racconta la mamma di A. che prosegue: “Quando A. era in pancia e pensavo all’allattamento non avevo idea di come sarebbe iniziato, figurarsi di quando sarebbe stato il momento di smettere. Arrivare ai famosi sei mesi con il solo mio latte mi pareva un traguardo lontanissimo. Consideravo un record stravagante l’esperienza di mia cognata, che aveva allattato circa 26 mesi ciascuno dei suoi tre bambini e che mi diceva che quando allattava si sentiva in gran forma. Invece io ho fatto fatica, soprattutto per i risvegli notturni. Ma senza sapere come, eccomi qui. Passavano i mesi e la gestione dell’allattamento si semplificava. E mi dicevo: ma si, vediamo quando compierà un anno. Poi due anni. Ora siamo qui, a godere di un’esperienza faticosa e bellissima, in fondo metafora della maternità. Anch’essa faticosa e bellissima”.
A. è cresciuto tra camion e costruzioni. Oggi per la prima volta ha in mano una barbie, tra l’altro nuda: “Mamma come si tolgono le mutande, così fa la pipì?”. Bene, il pupo conosce l’ABC delle funzioni fisiologiche. Poi avvicina la barbie alle labbrucce e si attacca prima a un seno, poi all’altro. Non esce niente. Si gira da un’altra parte: la bella plasticona non gli interessa. Ridiamo a crepapelle.
La sua mamma: “Finalmente un uomo, seppur immaturo, che riconosce qual’è la prima e la più importante funzione della ghiandola mammaria”.
Non resisto a commentare anch’io: “Dopo secoli bui, il genere umano ricomincia a fare passi avanti”.