Avevo iniziato a sospettarlo con il parto di mia sorella.
Mia sorella, cittadinanza italiana, era impegnata in un travaglio-storia-infinita. Rottura alta del sacco, ricovero, profilassi antibiotica, fettucce e fettuccine, gel, prostglandine e ossitocine. Una degenza di 72 ore prima di riuscire a partorire una bimbetta di nemmeno tre chili. Il tutto condito da un turbinio di suppliche, implorazioni e minacce:
“Vi prego, il cesareo...”
“Mi rifiuto non faccio più niente! Dove diavolo è l’anestesista con i ferri?”
“ Mi state prendendo per i fondelli! Mi avete detto un’ora fa che l’anestesista stava arrivando!”
“Chissenefrega se si vede già la testa. Basta, voglio il cesareo!!!”
Nel frattempo, le mamme con cittadinanza cinese arrivavano, partorivano, se ne andavano. L’ostetrica: “L’ho lasciata un attimo sul lettino in corridoio. Il travaglio era appena iniziato. Qualche smorfia...il bambino non stava mica nascendo lì, in corridoio?”.
L’avevo sospettato: stesso ospedale, identico staff medico sanitario, eppure le donne italiane, arabe, orientali partoriscono all’italiana, all’araba, all’orientale.
Lo descrive bene la giornalista Sara Hejazi nel suo articolo “Babele in sala parto”, pubblicato su IL rivista allegata al Sole24ore.